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Immagine del redattoreGiulia Fabrizi

Storie di donne e moda sostenibile - di Alessandra Rizzo

Aggiornamento: 4 feb




Storie di donne e moda sostenibile

Girovagando su Instagram la sera, ho scoperto tante storie di donne che hanno fatto di una passione il loro lavoro, all’insegna della sostenibilità (talvolta lasciando la professione precedente e ruoli di grande prestigio).

Riuso, ricerca di materiali provenienti da Paesi lontani quali l’India, la Turchia, l’Uzbekistan, il Messico, la Colombia, collaborazione con artigianivagabondaggio tra mercatini di antiquariato e negozietti vintage alla scoperta di piccoli tesori come bottoni, ciondoli, fregi per mobili, nappe, trench in stile Humphrey Bogart, giacche da cow-boy, pezze di tessuti che si trasformeranno con creatività e maestria in capi di abbigliamento, bijoux, borse, cinture ed altro ancora da vendere on line, in temporary shop ed eventi solidali.

Ne resto affascinata perché queste donne hanno creatività e passione senza confini ma più di tutto coraggio e molta etica. La voglia di cambiare il mondo in meglio, rispettando il lavoro delle persone, valorizzandone le competenze e l’impegno, non sprecando risorse, offrendo lavoro a chi ne ha bisogno all’insegna del motto “meno ma meglio”. Sono tutte creatrici di quella che oggi si chiama “sustainable, slow fashion”, che si contrappone alla fast fashion. 

Difficile “scegliere” chi, tra le tante, raccontarvi e cosi ho selezionato tre donne molto diverse tra loro, proprio come le loro storie. 

 

 

Giglio Tigrato di Carlotta Orlando, designer

Carlotta Orlando, classe 1998, Founder and Creative Director di Giglio Tigrato si è laureata al Politecnico di Milano. Sceglie di combinare la sua passione per arte, fashion e upcycling e a sei mesi dall’inizio di una pandemia che ha sconvolto il mondo intero, decide di prendere parte alla battaglia per una moda più responsabile, trasformando la mansarda della nonna nel suo Atelier. Da quel giorno, all’ultimo piano di un palazzo di Milano, prendono vita capi unici e collezioni in serie limitata di capi vintage e non, interamente realizzati secondo i dettami della sostenibilità: Giglio Tigrato dipinge, taglia e cuce producendo solo capi Made in Italy e collaborando con piccole sartorie e giovani aziende del nostro territorio. Carlotta ha voluto promuovere un modo di fare moda che va contro tutto ciò che non è sostenibile, tutto ciò che produce uno scarto e tutto ciò che non risalta l'unicità, una qualità che, troppo spesso, tutti dimentichiamo di avere a causa del fast fashion.

Per Giglio Tigrato sostenibilità e upcycling significano durabilità, qualità e versatilità. Carlotta dà nuova vita a capi vintage e materiali di scarto dimenticati dalle logiche della produzione di massa e del consumismo. Giglio Tigrato punta a utilizzare tessuti che altri hanno sovra-prodotto o scartato: le sue Capsule Collection sono caratterizzate da forme semplici e un'ampia ricerca materica. Tutto ciò che viene prodotto nell'atelier di Giglio Tigrato ha per definizione una sua storia: il materiale utilizzato, le tecniche artigianali, l'uso delle macchine da cucire e l'uso delle vernici sono elementi chiave che riportano alla tradizione.

Ma perché Giglio Tigrato? Il Giglio Tigrato non è soltanto un fiore che viene dall’Asia, ma anche la Principessa che vive sull’Isola che non c’è. Il marchio racchiude questa doppia identità con i suoi disegni sgargianti, che richiamano la cultura giapponese e cinese, e con il suo caratteristico simbolismo e attaccamento alla natura, influenzato dalle tribù dei nativi americani. Proprio come sull'isola di Peter Pan, l'Atelier di Giglio Tigrato è il luogo dove, per Carlotta e il suo team, tutto diventa possibile e alimenta la voglia di smantellare le logiche folli dell'industria della moda che stanno lentamente distruggendo il nostro pianeta. 


                     

 

LÙSac di Luisa Vanzini, architetto e home designer

Ecco come si racconta Luisa e come racconta il suo progetto:

“Come architetto, da molti anni frequento botteghe e laboratori e lì ho imparato che solo il lavoro artigianale, il “fatto a mano” permette di guardare al dettaglio e dare un’anima di bellezza agli oggetti che riempiono la nostra vita. Come donna, credo nel valore del recupero. In un mondo in cui si dimentica, si scarta e si inquina, riprendere, riusare con creatività è un modo per non dimenticare il passato, ma anche per andare incontro al futuro consapevoli di stare facendo la propria parte. LÙSac nasce dall’incontro di queste due anime. E’ un progetto sostenibile che nasce da tessuti di arredamento, pezze vintage d’autore e tessuti alternativi che sono inutilizzati e che ora grazie ad un riuso creativo trovano una nuova vita, una nuova funzione. La LÙSac è bespoke, ogni pezzo è unico e prodotto singolarmente

 

La ricerca delle Pezze è fatta frequentando laboratori artigianali di vari produttori di tessuti o nelle botteghe dei tappezzieri in giro per l’Italia e durante i vari viaggi all’estero. Si concentra esclusivamente sui surplus di produzione, scampoli rimasti, tessuti fuori produzione, avanzi. Pezze dimenticate ma che hanno una storia, una tecnica di tessitura e un valore. Scampoli, ritagli, avanzi di stoffe: bellissimi, ma troppo piccoli e troppo pochi. Le Pezze sono selezionate poi portate in Atelier per essere riqualificate, controllate, pulite da eventuali incongruità e suddivise per categorie, pronte per essere abbinate prima di essere portate in sartoria per la confezione, esclusivamente Made in Italy. Avviene così la fase di RECUPERO, di RIUSO e di RICICLO creativo. 

 

“Le mani della sarta di LÙSac sanno la consistenza del filo che rende più forte una cucitura, il colore che la ingentilisce, la amalgama con il tessuto o la fa risaltare accendendo un disegno, un decoro. Il cuoio della LÙSac viene da pelli che portano il marchio della concia naturale, quella fatta ancora in bottali di legno con sostanze vegetali e che non inquina la terra, anzi la nutre. Ogni sacca richiede un tempo diverso, speso sul tavolo della selleria segnando con il compasso il punto in cui la pinza taglierà, rifinendo i bordi con il levacoste e cucendo punto dopo punto ogni singolo pezzo. Sono i suoi lacci che nominano definitivamente una LÙSac. Andrea, il sellaio, li chiude con i nodi del velista che ha nel cuore e nelle mani”

Non un packaging qualsiasi:

“la borsina con cui consegno una LÙSac ha lo stesso DNA delle sacche: quello del Riciclo creativo, del non spreco, del Riuso e della consapevolezza che sono solo queste tre le strade che abbiamo davanti per preservare il nostro futuro. Riciclo creativo – Upcycling, come è scritto sull’etichetta – perché le Pezze di cui si compone il packaging vengono dal tavolo della sarta che ha cucito le LÙSac. Sono i ritagli di ciò che rimane dopo tutte le lavorazioni. Perché sprecarlo? Perché non dare una nuova possibilità a tanta bellezza e colore?”

La LU’Sac sostiene l’impegno sociale della Cooperativa Alice di Milano, nata nel 1994 all’interno della Casa Circondariale San Vittore, che supporta le detenute nei percorsi di re-inserimento sociale

“C’è maggior gioia nel lavorare con e per gli altri, piuttosto che solo per noi stessi. Solo così la nostra società diventa luogo felice”. 

Con queste parole Luisa Vanzini ha annunciato con orgoglio l’inizio della nuova collaborazione tra La LU’Sac e Cooperativa Alice, a cui ha affidato parte della sua produzione. 


              

 

Dress more with less di Federica Balestrieri, giornalista

“Nella mia seconda vita mi sono dedicata al volontariato e a RISCATTI (www.ri-scatti.it), una piccola onlus che ho fondato con un gruppo di amici, che utilizza le immagini, la fotografia, come terapia per raccontare un disagio, un dolore, un momento anche transitorio di difficoltà. E poi viaggio per il mondo, alla ricerca di piccoli artigiani e artigiane che producano tessuti, ricami, passamanerie, pietre semipreziose, soprattutto cooperative sociali di donne: ascolto le loro storie, ammiro la loro arte e poi libero la mia fantasia creando accessori e capi di abbigliamento, solo pezzi unici. Sono una giornalista, ho lavorato alla RAI per 25 anni. Ma ad un certo punto mi sono resa conto la mia prima vita si era esaurita, con successo e soddisfazione. E non ho avuto dubbi. Il 31 dicembre 2016 ho dato le dimissioni. La mia prima vita, a 47 anni, si era conclusa. Con moltissime soddisfazioni e zero rimpianti. Una nuova esistenza mi stava aspettando. Era tempo di andarle incontro”. 

Questo il racconto molto coinvolgente di Federica Balestrieri.  Nasce così Dress more with less, vestirsi meglio con meno fast fashion e più pezzi unici, realizzati in modo sostenibile nel rispetto della dignità dei lavoratori e dell’ambiente che ci circonda: una slow fashion.

 

“Quando ricerco artigiani in Messico, India, Colombia, Marocco, prediligo donne che si siano consorziate in cooperative sociali per proteggere il proprio lavoro, troppo spesso sfruttato a basso costo. Oppure, come in india, faccio lavorare piccole sartorie familiari e non grandi fabbriche dove gli ambienti e i ritmi di lavoro sono alienanti. I tessuti sono naturali e il più possibile realizzati con il telaio a mano risparmiando energia e salvaguardando antiche tecniche di tessitura tradizionali. Le tinture per maggioranza vegetali, le stampe prevalentemente fatte a mano. Ho quasi azzerato gli scarti di produzione perché riutilizzo tutti i leftovers facendo abiti patckwork o sacchetti in tessuto che uso come packaging quando spedisco sciarpe e tracolle per le borse. E soprattutto produco, per scelta, piccole quantità. Non obbligo gli artigiani a lavorare a cottimo. Arriviamo dove possiamo, non voglio produrre in eccesso. Quando i capi sono terminati chiudo lo shop online e lo riapro la stagione successiva. Così non ho rimanenza da smaltire nell’ambiente con costi ambientali altissimi. Infine, pago sempre il giusto quando commissiono un lavoro ad un’artigiana di una minoranza etnica del nord del Vietnam, dell’India o del Guatemala. E non cerco margini di guadagno esagerati nel rivenderlo. Il profitto per me viene dopo il piacere del viaggio e della ricerca che mi ha portato a scovare quel tessuto o quella cooperativa di artigiani. Il sentiero è più importante della meta, nel viaggio della mia vita. Non c’è bellezza in un abito che genera fame e infelicità, come dice Gandhi”

 

Restituire per me è sempre stato un dovere: parte della mia fortuna, felicità, tempo, denaro a chi ha di meno, a chi nella vita è rimasto indietro o anche solo nato nell’emisfero più povero del pianeta. Per questo scelgo di produrre con piccoli artigiani che lavorano soli o con la loro famiglia: le mie piccole sartorie di Jaipur a Delhi, per esempio, oppure con cooperative sociali di donne, come Doha che insegna ricamo alle donne di Marrakech o Cristina un’indigena Wayuu della Colombia che ha creato una cooperativa di artigiane della mochila, la tradizionale borsa colombiana. Se non trovo cooperative sociali, scelgo realtà che poi restituiscono parte del ricavato a sostegno di progetti locali. Così mi sento davvero felice”

                               

 

Alessandra Rizzo - Ricercatrice Qualitativa, Marketing Consultant e Coach

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